LA BARA BIANCA
Il suono della campanella li trovò già pronti a scattare, con lo zainetto infilato sulle spalle.
Si precipitarono verso il cancello, spingendosi l’un l’altro, come una piccola mandria di vitellini.
La mattinata era stata interminabile per gente cui urge dentro la primavera e la voglia di vacanze, con i piedi frementi nelle scarpette da ginnastica e i pensieri che vagano lontano: alla partita di pallone, ai mari, ai monti...
Erik fu uno dei primi ad uscire perché aveva spinto di più e aveva più cose da fare durante la vacanza di Pasqua. Doveva andare in Meridione, dalla nonna, con la sua famiglia e si stava pregustando ogni particolare.
Si avviò quindi, a passo svelto, insieme a un suo amico che abitava vicino a lui.
Il percorso scuola-casa era breve: qualche negozio, un giardinetto, poche case, un benzinaio.
Parlavano e ridevano fra loro, rumorosamente, prendendo a calci i sassi, tanto per consumare prima le scarpe, come dicevano le loro mamme.
A un tratto, Erik si fermò davanti al negozio di Pompe Funebri. Era un grande locale, quasi un magazzino, appena aperto. Aveva un’insegna un po' ironica: “ Grande Centro del Funerale”.
In quella mattina di sole, primo giorno di vacanza pasquale, il negozio di bare (perché questo era) si presentava come un pugno in un occhio, una stonatura, quasi un’aggressione fatta dai morti ai vivi.
“Tiè!” disse il suo amico, estraendo dal pugno chiuso l’indice ed il mignolo e rise. Ma Erik rimase serio perché guardava una piccola bara bianca, appoggiata contro il muro, tra le altre più grandi, scure e lucide di fuori e vezzosamente foderate, all’interno, di raso bianco increspato.
“Che fai lì? Dai! Andiamo! Muoviti!”.
“Guardo quella bara. Perché è bianca?”
“Ma non hai mai visto un funerale di bambini?”
No, non lo aveva mai visto, né aveva mai avuto occasione di pensare che anche i bambini muoiono.
Sì, quelli dei film, va bene. Ma cosa c’entra? Si parla di morte vera, col prete, il funerale e la fossa. Insomma, quella dei vecchi. Quella del suo nonno sepolto in Meridione, l’anno scorso, in quel piccolo cimitero con la vista sul mare.
Si rattristò, improvvisamente, cercando di immaginare, in quella bara un corpo di bambino.
Gli risultò impossibile spegnergli gli occhi, dipingergli il volto di giallo, renderlo immobile, mettergli un rosario tra le dita e poi incorniciarlo di rose per farlo assomigliare a un vero morto, come il nonno. Impossibile! I bambini sono la vita, l’allegria, la corsa, il gioco, il movimento.
Con che coraggio si può prendere un bambino, chiuderlo in una cassa e poi portarlo al cimitero e lì abbandonarlo da solo, in mezzo a tutti quei poveri morti?
Ecco come è effimera la gioia di un primo giorno di vacanza: il tempo di percorrere una strada.
Arrivò al cancello della sua casa. Suonò al citofono. La mamma gli aprì. Percorse il vialetto interno, a passi lenti, senza guardare la siepe di biancospino che era esplosa in tutta la sua gloria primaverile. Salì le scale, a piedi.
La mamma lo aspettava, affettuosamente, sulla porta, pronta a rispondere alla solita domanda: “Che si mangia oggi di buono?”.
Ma lui, invece, le si buttò tra le braccia, per essere protetto dall’angoscia.
“Che è successo tesoro? Hai preso un brutto voto?”
“No mamma, no, ma mi sono ricordato che anche i bambini muoiono”.
La mamma lo accarezzò piano. “Vanno in Cielo, lo sai”.
“No, vanno sottoterra”.
“Senti ne parleremo con calma un’altra volta. E’ una storia lunga. Ora vieni a mangiare che è pronto, poi faremo le valigie insieme”.
Diede un’occhiata alle valige vuote, già tirate fuori dallo sgabuzzino, ancora tutte impolverate: sapevano di vacanza, di mare, d’allegria. Dalla cucina usciva un odore d’arrosto che rincuorava.
Disse: “Mamma e di primo che hai cucinato?”
Effimera è la gioia ed effimero è il dolore!
Il suono della campanella li trovò già pronti a scattare, con lo zainetto infilato sulle spalle.
Si precipitarono verso il cancello, spingendosi l’un l’altro, come una piccola mandria di vitellini.
La mattinata era stata interminabile per gente cui urge dentro la primavera e la voglia di vacanze, con i piedi frementi nelle scarpette da ginnastica e i pensieri che vagano lontano: alla partita di pallone, ai mari, ai monti...
Erik fu uno dei primi ad uscire perché aveva spinto di più e aveva più cose da fare durante la vacanza di Pasqua. Doveva andare in Meridione, dalla nonna, con la sua famiglia e si stava pregustando ogni particolare.
Si avviò quindi, a passo svelto, insieme a un suo amico che abitava vicino a lui.
Il percorso scuola-casa era breve: qualche negozio, un giardinetto, poche case, un benzinaio.
Parlavano e ridevano fra loro, rumorosamente, prendendo a calci i sassi, tanto per consumare prima le scarpe, come dicevano le loro mamme.
A un tratto, Erik si fermò davanti al negozio di Pompe Funebri. Era un grande locale, quasi un magazzino, appena aperto. Aveva un’insegna un po' ironica: “ Grande Centro del Funerale”.
In quella mattina di sole, primo giorno di vacanza pasquale, il negozio di bare (perché questo era) si presentava come un pugno in un occhio, una stonatura, quasi un’aggressione fatta dai morti ai vivi.
“Tiè!” disse il suo amico, estraendo dal pugno chiuso l’indice ed il mignolo e rise. Ma Erik rimase serio perché guardava una piccola bara bianca, appoggiata contro il muro, tra le altre più grandi, scure e lucide di fuori e vezzosamente foderate, all’interno, di raso bianco increspato.
“Che fai lì? Dai! Andiamo! Muoviti!”.
“Guardo quella bara. Perché è bianca?”
“Ma non hai mai visto un funerale di bambini?”
No, non lo aveva mai visto, né aveva mai avuto occasione di pensare che anche i bambini muoiono.
Sì, quelli dei film, va bene. Ma cosa c’entra? Si parla di morte vera, col prete, il funerale e la fossa. Insomma, quella dei vecchi. Quella del suo nonno sepolto in Meridione, l’anno scorso, in quel piccolo cimitero con la vista sul mare.
Si rattristò, improvvisamente, cercando di immaginare, in quella bara un corpo di bambino.
Gli risultò impossibile spegnergli gli occhi, dipingergli il volto di giallo, renderlo immobile, mettergli un rosario tra le dita e poi incorniciarlo di rose per farlo assomigliare a un vero morto, come il nonno. Impossibile! I bambini sono la vita, l’allegria, la corsa, il gioco, il movimento.
Con che coraggio si può prendere un bambino, chiuderlo in una cassa e poi portarlo al cimitero e lì abbandonarlo da solo, in mezzo a tutti quei poveri morti?
Ecco come è effimera la gioia di un primo giorno di vacanza: il tempo di percorrere una strada.
Arrivò al cancello della sua casa. Suonò al citofono. La mamma gli aprì. Percorse il vialetto interno, a passi lenti, senza guardare la siepe di biancospino che era esplosa in tutta la sua gloria primaverile. Salì le scale, a piedi.
La mamma lo aspettava, affettuosamente, sulla porta, pronta a rispondere alla solita domanda: “Che si mangia oggi di buono?”.
Ma lui, invece, le si buttò tra le braccia, per essere protetto dall’angoscia.
“Che è successo tesoro? Hai preso un brutto voto?”
“No mamma, no, ma mi sono ricordato che anche i bambini muoiono”.
La mamma lo accarezzò piano. “Vanno in Cielo, lo sai”.
“No, vanno sottoterra”.
“Senti ne parleremo con calma un’altra volta. E’ una storia lunga. Ora vieni a mangiare che è pronto, poi faremo le valigie insieme”.
Diede un’occhiata alle valige vuote, già tirate fuori dallo sgabuzzino, ancora tutte impolverate: sapevano di vacanza, di mare, d’allegria. Dalla cucina usciva un odore d’arrosto che rincuorava.
Disse: “Mamma e di primo che hai cucinato?”
Effimera è la gioia ed effimero è il dolore!