The Jar of Poetry


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Una vita travagliata: rigorosamente non autobiografico

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Licia

Licia
Mamma Orsa
Mamma Orsa

UNA VITA TRAVAGLIATA


1) La nascita:

Quando io nacqui, tutte le rane del vercellese gracidavano come forsennate perché il solleone di Luglio s’era bevuto l’acqua dei fossi e la loro pelle morbida di batraci si andava screpolando e gli tirava sui magri corpicini.
Mia madre sentì la prima doglia mentre stava leccandosi un gelato alla fragola, seduta con mio padre, su di una panchina dei giardini pubblici.
Essendo molto giovane ed orfana, nessuno le aveva spiegato che la prima doglia è solo un avvertimento e che ci sarebbe stato tutto il tempo per prendersela comoda: finire il gelato, andare a casa a farsi una doccia e poi mettersi a letto ad attendere la levatrice.
Così, invece, cacciò un urlo dalla gola che fece accorrere allarmati tutti quelli che passavano di lì in quel momento.
Mio padre, anche lui alle prime armi, andò alla ricerca di un dottore, che peraltro non si trovava.
Quando tornò con il dottore, che non aveva capito bene di cosa si trattasse, la panchina era ormai vuota ed il capannello di gente s’era dissolto.
I due si guardarono l’un l’altro non sapendo cosa dovessero fare. Finché una signora che aveva visto la scena da un balcone gridò: “E’ all’ospedale!”.
Pagata al dottore la visita non fatta, mio padre partì alla ricerca di un suo amico che aveva una “Topolino”.
L’amico, però, stava all’osteria e ci volle del bello e del buono a spiegargli cosa fosse successo e cosa dovesse fare lui, perché la sua mente era annebbiata dal vino. Quando Dio volle, andò a prendere la macchina che non partiva e si dovettero cercare due persone per spingerla. Per colmo di sfortuna, si bucò anche una gomma ed infine due mucche testarde sbarrarono la strada.
Quando finalmente mio padre arrivò in ospedale, io ero già nata e gli dettero la notizia, non proprio buona per quei tempi, che ero femmina.
Mio padre ingoiò il rospo ed anzi fece i complimenti alla sua sposina per come ero bella e per come era stata brava a farmi così in fretta.
Le ostetriche si davano di gomito, a sentire queste parole, e ridevano fra loro commentando che una come mia madre non si era mai vista dalla fondazione dell’Ospedale. Al momento culminante del parto, il suo urlo bestiale aveva risvegliato anche i morti della camera mortuaria e, quando io le ero stata messa in braccio, mi aveva chiamata “assassina” e diceva che mi tenessero loro perché lei non mi voleva.
Col passar dei giorni però, invece, mi si affezionò e anzi mi teneva sempre attaccata alle poppe ché mi dovevano staccare con la forza e diceva che sarei diventata grande e bella con il suo buon latte abbondante.
Dopo una settimana, l’amico della Topolino venne a prenderci e tornammo a casa. Ma qui giunti, mamma si accorse di aver dimenticato il biglietto delle istruzioni su come maneggiarmi che le ostetriche, preoccupate della sua sprovvedutezza, le avevano preparato.
La poverina ebbe una crisi di pianto soprattutto perché non si ricordava come dovesse fare con il funicolo ombelicale.
Papà, per calmarla, chiese aiuto alle vicine che furono felici d’infilarsi in casa nostra a fare le maestrine.
Così, con tutte queste aiutanti e un po' di fortuna, uscii indenne dalla fase perinatale.

2) L’infanzia:

Gli anni dell’infanzia furono disastrosi e devo essenzialmente alla mia costituzione robusta l’essere ancora viva.
Mia madre, poveretta, niente da dire, s’impegnò moltissimo, cercando di superare la sua natura. Ma nessuna delle malattie infantili passò invano dalla nostra casa. Le acchiappai tutte: morbillo, scarlattina, varicella, quarta, quinta, sesta malattia. Ero sempre fiorita di puntini rossi come un prato. Si aggiungano le tonsille fradice, l’appendicite e i numerosi incidenti (la canfora, l’acqua bollente, le prese di corrente, le cadute) e si avrà il quadro della situazione.
All’ospedale ero di casa. Se ritardavo di alcuni mesi all’Accettazione si preoccupavano temendo che io avessi avuto il guaio definitivo. Il più delle volte si rendeva necessario ricoverare anche la mamma che era sempre in stato di agitazione psicomotoria. Benché nessuno l’accusasse di nulla (almeno apertamente), strillava sempre che non era colpa sua, che era sfortunata e che la bambina era troppo vivace.
Le infermiere della pediatria mi volevano un gran bene e, fosse stato per loro, mi avrebbero tenuta lì sempre. Ma il primario diceva che dovevo adattarmi al mio ambiente e che ce l’avrei fatta perché ero una bambina in gamba e anche fortunata.
Infatti, già verso i dieci anni, fui in grado di badare a me stessa e di dare anche un’occhiata alla mamma. E tutto filò liscio fino all’adolescenza.

3) L’adolescenza

Qui incominciarono i miei veri problemi. Infatti mi ritrovai una natura alquanto focosa. Forse oggi, che si spiega tutto con la psicologia, si potrebbe pensare che le continue lotte per sopravvivere mi avessero esasperato i sensi oppure che io avessi nell’inconscio una gran fretta di mettere al sicuro la mia discendenza. Chissà! Resta comunque che a tredici anni gli uomini mi facevano già impazzire.
Cominciarono presto le lotte con mio padre. Basta dire che nel paese lo chiamavano: “il siciliano” non riferendosi alle sue lontane origini (ormai annacquate nelle risaie vercellesi) ma al suo comportamento da gelosone. Mia madre, infatti, poverina, usciva solo se accompagnata da lui e guai se qualcuno si fosse permesso di guardarla due volte o di voltarsi o, peggio, di fare un apprezzamento!
La prima volta che io ebbi un corteggiatore, che soleva passeggiare sotto le nostre finestre, mio padre, accortosene, interpretò male e gli rovesciò un secchio d’acqua sulla testa, ordinando a mia madre di non affacciarsi più per nessuna ragione. Ma poi, quando ci vide abbracciati per le scale, capì che ormai le sorvegliate dovevano essere due e fu lotta continua per anni ed anni. Solo la mia grande brama mi consentì di sfuggire alle maglie di una guardia asfissiante e riuscii, malgrado tutto, a vivere comunque la mia stagione.

4) la Giovinezza

Compiuti i ventun anni, feci un fagottello delle mie poche robe ed andai in città a cercare lavoro e nuove avventure più stuzzicanti ché ormai i ragazzi del paese mi erano venuti a noia.
Cominciai da dove cominciano tutte le ragazze senza istruzione: feci la cameriera per trovare casa e stipendio insieme.
Dapprincipio tutto funzionò perché ero svelta e simpatica ma poi la padrona si offese perché avevo iniziato troppo precocemente il padroncino alle cose del sesso e fui licenziata.
Mi ricordai allora con simpatia dell’Ospedale dove avevo, in fondo, trascorso dei begli anni. Così feci domanda da inserviente e fui accolta; poi mi iscrissi al corso interno per infermiere.
Fu un buon periodo nell’insieme, anzi una pacchia.
Non mi lasciai sfuggire nessuno né tra i dottorini né tra gli infermieri né tra i malati che non fossero del reparto lungodegenti.
Piacevo incredibilmente e nei reparti in cui lavoravo nessuno voleva farsi dimettere benché tutti guarissero quasi subito grazie alle mie assidue cure.
Purtroppo la mala pianta dell’invidia cresce anche nelle corsie. Ci furono delle spiate. Una sera, la capo sala mi colse sul fatto e, alzando di colpo le coperte del letto 10, mostrò al primario cosa stessimo facendo io e l’omonimo paziente. Così dovetti andarmene e mi ritrovai, di nuovo, in mezzo ad una strada.
Una collega del convitto, che nel frattempo si era sposata, mi ospitò gentilmente a casa sua.
Per disgrazia, però, suo marito era della mia pasta: uno che s’incendiava facilmente.
Resistemmo a lungo ma fu una tortura: mi guardava, mentre mangiavamo, attraverso il tavolo con occhi che mi perforavano e sentivo il suo calore sul fianco quando stavamo seduti, alla sera, a chiacchierare con sua moglie, sul divano.
Poi fu anche colpa della mia amica quanto successe: certe imprudenze si pagano. Ci lasciò soli per due giorni dovendo andare al funerale di una zia calabrese.
Mentre la vecchia veniva seppellita, il fedifrago mi soffocò di baci. Gli dissi: “Non farlo disgraziato” ma come ben immaginavo, furono parole al vento.
Quando succede la prima volta non si può tornare indietro e, anche se si fosse potuto, noi non lo avremmo fatto perché ci piaceva da maledetto!
Non so se la mia amica avesse cominciato a nutrire dei sospetti, ma certo che mi presentò, in quel periodo, diversi amici e diceva spesso: “Credimi: dovresti sposarti; è bello essere sposati e poi avresti una casa tua, senza l’assillo di trovarti per forza un lavoro”.
Capii l’antifona e mi sposai. Tra i vari disponibili scelsi il più ricco. Se si doveva fare, tanto valeva almeno guadagnarci.
Non ci fu mai scelta meno azzeccata. Era uno che bisognava tirare a letto con la forza e poi si addormentava durante i preliminari.
Naturalmente mi arrangiai con gli adulteri e devo dire che lui mi lasciò fare senza offendersi.
Avevamo appena trovato un buon tran tran di vita: lui mi manteneva e io lo accudivo teneramente, come una madre, quando fece degli investimenti sbagliati e ci trovammo sul lastrico.
Non contento di avermi rovinato la vita, si suicidò e io mi trovai, ancora una volta, sola e senza un euro per vivere.
In certe circostanze di disperazione nera, viene buona la famiglia.
Ripensai alla mia infanzia travagliata, all’adolescenza avventurosa, a quei due poverini che mi avevano vista partire vent’anni prima con un fagottello di stracci e mi colse la nostalgia. Inoltre, obiettivamente, non sapevo proprio dove andare. Una casa, anche se piccola e povera, è pur sempre una casa e una madre calda, anche se sprovveduta e mezza pazza, è pur sempre una madre calda.
Così ci fu il ritorno all’ovile della pecorella nera e fui riaccolta a braccia aperte, meglio del figliol prodigo e non mi si negò quel tozzo di pane di cui, dopotutto, avevo bisogno per vivere.

5) La maturità:

A quel tempo, i miei genitori erano già abbastanza vecchierelli e naturalmente non fecero che peggiorare.
Mamma diventò sempre più svanita e bisognava sorvegliarla a vista perché non si cacciasse in guai troppo grossi.
Andava in giro per la casa a cercare “la bambina” e diceva che bisognava stare attenti perché non si facesse male.
Papà, invece, si mantenne a lungo lucido ma non riusciva a camminare da solo e voleva sempre essere accompagnato alla finestra per sorvegliare che non “ronzassero mosconi” a dar fastidio alle brave signore.
Furono anni di grande astinenza per me. Di far l’amore non se ne parlava. Meno male che di avventure amorose avevo fatto una buona scorta.
I miei genitori morirono insieme e la mamma volle lasciare la sua firma a questa morte: mentre ero fuori a fare la spesa cercò di accendere il gas ma non trovava il fiammifero finché fu presa da un gran sonno e s’addormentò per sempre. Papà voleva andare ad aprire la finestra ma cadde a terra e lo trovai che boccheggiava.

6) La vecchiaia

Venne il giorno che, guardandomi allo specchio, scoprii che ormai ero vecchia anch’io e che era giunta l’ora di pensare ad un ospizio dove finalmente avrei potuto riposare ed essere accudita.
Ed eccomi qui, alla “Casa delle sette palme”, un posticino mica male. Ho contratto un vitalizio con la piccola eredità dei miei genitori.
Qui starò per tutti gli anni che mi mancano. Appena arrivata, mi sono guardata intorno, così d’istinto, per vedere ci fosse stato qualche ometto ancora in tiro. Ma poi ho pensato: meglio non farne niente prima che mi caccino anche di qui.

7) La morte

Oggi compio ottant’anni. In cucina stanno preparando la torta con le candeline ma non so se riuscirò a spegnerle, con il poco fiato che mi resta. Fa un gran caldo. Il sole di Luglio ha asciugato l’acqua dello stagno e le rane gracidano come forsennate perché la ... pelle ... morbida ... da batraci ... gli si è screpolata ... sui ... magri ... corpicini ... addio

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Genoveffa Frau

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Master of Horse
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Non potrà dire di non aver vissuto e di non aver fatto esperienze, avventurosa vita fino all'ultimo respiro!
La vita è trascorsa cosi velocemente...Le sarà rimasto qualche rimpianto?

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