LA DISOCCUPATA
La mia storia è per un lungo tratto simile a quella di tante altre ragazze. Ho sudato sette camicie per prendermi un diploma di ragioniera (quando mi sarebbe piaciuto tanto fare la commessa). Per poi sentirmi dire, dai vari capiufficio del personale, sempre la stessa formula: siamo al completo. Maledetto il giorno che ho dato retta ai miei: “senza un diploma non troverai lavoro; sacrificati ora per farti un futuro” e così figuriamoci…
Per non sentirli più, piuttosto che per convinzione, mi sono iscritta all’I.T.C. Mossotti del mio paese e dopo sei anni (cinque più la bocciatura) mi sono diplomata.
L’unica soddisfazione è stata quella di sbattere sotto il muso di mamma e papalino le risposte negative delle varie ditte perché concludessero, almeno per una volta, che anche i figli possono avere ragione.
Purtroppo però non ho avuto più fortuna neppure con i negozi, anch’essi al completo quanto a posti per commessa. Ho così passato diversi anni a far praticamente nulla (visto che scrivere domande di lavoro non si può considerare una vera attività) e a rimpiangere i bei tempi (pre-femminismo) in cui bastava acchiappare il cosiddetto merlo per poi farsi mantenere fino alla sua morte ed oltre, grazie alla pensione di reversibilità. Con l’andar degli anni ho finito con l’incattivirmi e guardar con rabbia crescente i “sistemati”, tutti ex primi della classe forniti quasi sempre di padre importante o (più raramente) di madre bella e accattivante.
Ma il primo sintomo che la mia rabbia stava diventando una malattia preoccupante l’ho avuto in occasione di una disgrazia. Avevo letto sul giornale il resoconto di un incidente nel quale erano periti contemporaneamente tutti gli impiegati di una ditta, in gita sociale: il loro pullman si era ribaltato finendo in un burrone.
Quando si sentono simili tragedie, chiunque non sia un mostro prova sentimenti che vanno dalla pietà fino all’orrore per la crudeltà del destino.
Non è stato il caso mio. Ecco il mio primo pensiero: quanti posti lavoro si sono liberati! Capite? Avrei dovuto preoccuparmi per quanto stava succedendomi. Consigliarmi con un prete o con uno psicanalista; forse mi sarei potuta fermare sull’orlo del precipizio nel quale infatti sono poi caduta. Invece ahimè! ho continuato a guardare la gente con uno sguardo sempre più allucinato, dividendola in due categorie: i sistemati e i disoccupati. Non avendo niente da fare (ci sono sempre le madri per le faccende di casa) avevo tutto il tempo per passeggiare lungo i portici e per occhieggiare dentro i negozi, mangiandomi con gli occhi le commesse mentre servivano i clienti con il loro fare compito o civettuolo. M’immaginavo, con la mente ormai febbrile, d’essere al loro posto, con un bel camice azzurro, ad annodare fiocchi sui pacchettini con le mie lunghe dita da pianista. Nessuno meglio di me avrebbe saputo consigliare i clienti sull’acquisto giusto.
Una sera, che chiamerò fatale, proprio mentre passavo da una pasticceria, sento un trambusto nel locale: “E’ la commessa”, gridano “si è sentita male”. C’è un accorrere di gente. Poi arriva un’ambulanza.
“Presto all’Ospedale”.
La sera dopo, passo a prendere notizie. Compro due paste e chiedo: “E la signorina?” “Purtroppo sta molto male, poverina, è all’Ospedale”. Il cuore mi balza in petto. La domanda mi brucia ma resisto a porla fino all’indomani sera: “E se la signorina non torna, come farete con tutto questo lavoro?” “Beh! Questo è il meno. Troveremo un’altra commessa”
“Troveremo un’altra commessa” “Troveremo un’altra commessa” come un ritornello queste parole mi girano per la testa. Mi sento come se mi avessero già assunta. Faccio progetti per il futuro. So già da tempo cosa comprare con il primo stipendio ma mi ripasso tutto per gustarmi la gioia. Poi, dopo un anno avrò un bel gruzzolo e mi servirà da anticipo per comprare con un mutuo un monolocalino che mi dia indipendenza.
Intanto, ogni sera vado in pasticceria e le notizie sono sempre più confortanti: è grave, gravissima.
Faccio fatica a nascondere la smorfia di trionfo sotto la faccia di circostanza. Poi, una maledetta sera, la moribonda torna in negozio, non per lavorare, no, ci vorrà la convalescenza, ma per salutare i proprietari, tanto cari e per rassicurarli che tornerà presto perché non gli venga in mente di sostituirla…
Mai una donna odiò così un’altra donna. Lo so che è assurdo e che nessuno sarebbe potuto essere dalla parte mia. Eppure io, in quel momento, mi sono sentita defraudata di un diritto ormai acquisito.
Come si era permessa di non morire con tutto quello che aveva avuto? Con tutta quella gente che, come me, alla sera andava a prendere notizie e si rattristava? Con i proprietari che già avevano dovuto pensare (anche se sollecitati) all’eventualità di assumere un’altra commessa? Con i suoi genitori ed il fidanzato e le amiche che l’avranno già pianta come morta?
Ormai la mia follia era al culmine. Mancava l’atto finale.
La sera dopo a quel ritorno inopportuno e crudele, ho sfilato la pistola d’ordinanza di mio padre nascondendola nella borsetta. L’ho attesa fuori dalla pasticceria e ho mirato al cuore.
Ora sono in carcere a scontare la mia colpa, non si sta poi così male. Ho una celletta piccola ma solo mia e soprattutto faccio la commessa allo spaccio interno. C’è voluto molto ma ce l’ho fatta.
La mia storia è per un lungo tratto simile a quella di tante altre ragazze. Ho sudato sette camicie per prendermi un diploma di ragioniera (quando mi sarebbe piaciuto tanto fare la commessa). Per poi sentirmi dire, dai vari capiufficio del personale, sempre la stessa formula: siamo al completo. Maledetto il giorno che ho dato retta ai miei: “senza un diploma non troverai lavoro; sacrificati ora per farti un futuro” e così figuriamoci…
Per non sentirli più, piuttosto che per convinzione, mi sono iscritta all’I.T.C. Mossotti del mio paese e dopo sei anni (cinque più la bocciatura) mi sono diplomata.
L’unica soddisfazione è stata quella di sbattere sotto il muso di mamma e papalino le risposte negative delle varie ditte perché concludessero, almeno per una volta, che anche i figli possono avere ragione.
Purtroppo però non ho avuto più fortuna neppure con i negozi, anch’essi al completo quanto a posti per commessa. Ho così passato diversi anni a far praticamente nulla (visto che scrivere domande di lavoro non si può considerare una vera attività) e a rimpiangere i bei tempi (pre-femminismo) in cui bastava acchiappare il cosiddetto merlo per poi farsi mantenere fino alla sua morte ed oltre, grazie alla pensione di reversibilità. Con l’andar degli anni ho finito con l’incattivirmi e guardar con rabbia crescente i “sistemati”, tutti ex primi della classe forniti quasi sempre di padre importante o (più raramente) di madre bella e accattivante.
Ma il primo sintomo che la mia rabbia stava diventando una malattia preoccupante l’ho avuto in occasione di una disgrazia. Avevo letto sul giornale il resoconto di un incidente nel quale erano periti contemporaneamente tutti gli impiegati di una ditta, in gita sociale: il loro pullman si era ribaltato finendo in un burrone.
Quando si sentono simili tragedie, chiunque non sia un mostro prova sentimenti che vanno dalla pietà fino all’orrore per la crudeltà del destino.
Non è stato il caso mio. Ecco il mio primo pensiero: quanti posti lavoro si sono liberati! Capite? Avrei dovuto preoccuparmi per quanto stava succedendomi. Consigliarmi con un prete o con uno psicanalista; forse mi sarei potuta fermare sull’orlo del precipizio nel quale infatti sono poi caduta. Invece ahimè! ho continuato a guardare la gente con uno sguardo sempre più allucinato, dividendola in due categorie: i sistemati e i disoccupati. Non avendo niente da fare (ci sono sempre le madri per le faccende di casa) avevo tutto il tempo per passeggiare lungo i portici e per occhieggiare dentro i negozi, mangiandomi con gli occhi le commesse mentre servivano i clienti con il loro fare compito o civettuolo. M’immaginavo, con la mente ormai febbrile, d’essere al loro posto, con un bel camice azzurro, ad annodare fiocchi sui pacchettini con le mie lunghe dita da pianista. Nessuno meglio di me avrebbe saputo consigliare i clienti sull’acquisto giusto.
Una sera, che chiamerò fatale, proprio mentre passavo da una pasticceria, sento un trambusto nel locale: “E’ la commessa”, gridano “si è sentita male”. C’è un accorrere di gente. Poi arriva un’ambulanza.
“Presto all’Ospedale”.
La sera dopo, passo a prendere notizie. Compro due paste e chiedo: “E la signorina?” “Purtroppo sta molto male, poverina, è all’Ospedale”. Il cuore mi balza in petto. La domanda mi brucia ma resisto a porla fino all’indomani sera: “E se la signorina non torna, come farete con tutto questo lavoro?” “Beh! Questo è il meno. Troveremo un’altra commessa”
“Troveremo un’altra commessa” “Troveremo un’altra commessa” come un ritornello queste parole mi girano per la testa. Mi sento come se mi avessero già assunta. Faccio progetti per il futuro. So già da tempo cosa comprare con il primo stipendio ma mi ripasso tutto per gustarmi la gioia. Poi, dopo un anno avrò un bel gruzzolo e mi servirà da anticipo per comprare con un mutuo un monolocalino che mi dia indipendenza.
Intanto, ogni sera vado in pasticceria e le notizie sono sempre più confortanti: è grave, gravissima.
Faccio fatica a nascondere la smorfia di trionfo sotto la faccia di circostanza. Poi, una maledetta sera, la moribonda torna in negozio, non per lavorare, no, ci vorrà la convalescenza, ma per salutare i proprietari, tanto cari e per rassicurarli che tornerà presto perché non gli venga in mente di sostituirla…
Mai una donna odiò così un’altra donna. Lo so che è assurdo e che nessuno sarebbe potuto essere dalla parte mia. Eppure io, in quel momento, mi sono sentita defraudata di un diritto ormai acquisito.
Come si era permessa di non morire con tutto quello che aveva avuto? Con tutta quella gente che, come me, alla sera andava a prendere notizie e si rattristava? Con i proprietari che già avevano dovuto pensare (anche se sollecitati) all’eventualità di assumere un’altra commessa? Con i suoi genitori ed il fidanzato e le amiche che l’avranno già pianta come morta?
Ormai la mia follia era al culmine. Mancava l’atto finale.
La sera dopo a quel ritorno inopportuno e crudele, ho sfilato la pistola d’ordinanza di mio padre nascondendola nella borsetta. L’ho attesa fuori dalla pasticceria e ho mirato al cuore.
Ora sono in carcere a scontare la mia colpa, non si sta poi così male. Ho una celletta piccola ma solo mia e soprattutto faccio la commessa allo spaccio interno. C’è voluto molto ma ce l’ho fatta.