INCONTRO NEL ROVO
Vi sono degli attimi che si infiltrano nella scansione regolare del tempo. Sono attimi che appartengono a un’altra dimensione, dove presente, passato e futuro non hanno senso. In quegli spazi di eternità può capitare di vivere straordinarie avventure impensabili e conturbanti.
Come capitò a me, quando ero una bambina con un grosso fiocco rosa nei capelli, alla moda di quei tempi lontani. Un giorno di un mese estivo (Luglio, forse, o Agosto) io raccoglievo more da un rovo e ne riempivo un cestino di vimini che colava succo nero, dai buchi dell’intreccio, sulle mie gambette abbronzate e sul vestito a fiorellini. Era l’ora più calda: il sole era allo zenit. Le cicale cantavano l’estate, una vespa solitaria mi avvolgeva in ronzanti e minacciose spire.
A un tratto, nel bel centro del cespuglio, tra le foglie, i frutti e le spine, mi apparve un volto di donna vecchia che mi risultò stranamente familiare. Mi guardava con affetto, no di più, con struggente nostalgia. Che non fosse una persona vera, intendo dire viva, concreta, reale, era evidente: troppo presto era apparsa, non vi era stato scricchiolio di foglie né di rami spezzati sotto i suoi piedi, nessun minimo rumore aveva rotto quel sonnolento silenzio estivo.
Pensai subito a mia nonna, morta di recente( avevo sentito dire che i morti ritornano attratti dalla forza degli affetti dei viventi). Ma no: benché ci fosse, tra i volti, una certa somiglianza, non poteva trattarsi di lei. Eppure, quel viso mi ricordava straordinariamente qualcuno che però non riuscii, sul momento a identificare. Gli occhi, soprattutto, mi pareva proprio di averli già visti. Avevano un’espressione intensa come se avessero voluto comunicarmi qualche segreto importante che le parole non avrebbero potuto formulare. Del resto, la sua bocca dalle labbra che la vecchiaia aveva reso sottili aride e pallide, pareva suggellata in un leggero broncio quasi infantile. Ci guardammo l’un l’altra per un attimo. Poi, dal cespuglio di rovo uscì una mano bianca, attraversata in verticale da lunghi ruscelli di vene blu. All’anulare sinistro, lampeggiò al sole una gemma azzurra sfaccettata.
Poi la visione sparì, così improvvisa come era arrivata e fui, di nuovo sola, nella calura, con il mio cestello di more in mano.
Non ne feci parola con nessuno, tanto non mi avrebbero creduto ma continuavo a pensare a quel viso che mi si era impresso nella mente con molta chiarezza e verso il quale provavo un’incredibile attrazione.
Un mese dopo compievo dieci anni. Ci fu una grande festa; nella torta con le candeline era nascosto il regalo dei miei genitori: un anello con un’acquamarina. Lo infilai al dito e la gemma mandò un lampo azzurro che mi arrivò diritto al cuore.
Corsi a uno specchio e mi guardai intensamente, cercando di invecchiarmi: rughe, capelli bianchi, una leggera patina grigiastra. borse sotto gli occhi, un po’ di doppio mento; il resto c’era, c’erano gli occhi con quel particolare tipo di castano, pieno di pagliuzze verdi, c’era il tipico naso aquilino, c’era l’ovale perfetto, le sopracciglia arcuate, lo zigomo sporgente, la fronte alta, il buco sul mento e il neo vicino all’angolo sinistro della bocca.
Ecco chi era. Ecco chi avevo incontrato. Ecco chi sarei diventata. Ecco il perché di quello struggimento nel suo sguardo e nella mia attrazione per lei.
Se non altro, pensai, avevo un lungo futuro assicurato.
Ora che sono vecchia (e porto ancora al dito l’acqua marina azzurra) spero sempre di incontrarmi, faccia a faccia, sia pure per un attimo, con quella bella bimba dal fiocco rosa nei capelli ed un cestino pieno di more che cola sugo nero sulle gambette abbronzate.