UNA VEDOVA CORAGGIOSA
Gli sguardi di tutti i componenti del corteo funebre erano per la vedova. La sua compostezza, la sua dignità, unite ad una notevole avvenenza, muovevano all’ammirazione chiunque la guardasse, perfino i passanti che si segnavano petto e fronte davanti al carro funebre e che, con curiosità mista a pena, seguivano con gli occhi la marcia lenta dei dolenti. Il nero del lutto confaceva alla sua bellezza, mettendo in risalto il turgore rosato delle carni giovanili. Camminava con la testa eretta, guardando dritto davanti a sé, quasi fissasse un punto del cielo da dove, forse, suo marito si sarebbe potuto affacciare per salutarla con un cenno della mano.
Non aveva versato un sola lacrima in tutto il corso della cerimonia. Né quando i becchini avevano chiuso la bara, né quando se l’erano caricata sulle spalle, passando tra le due ali di parenti ed amici dal viso afflitto, né in Chiesa, durante la predica dell’officiante che con la sua oratoria aveva mosso al pianto molti dei cuori più sensibili. E neppure, più tardi, al cimitero, durante quell’ultimo atto straziante al quale nessuno che abbia amato almeno un poco sa resistere: quando la cassa era scesa tra scricchiolii e cigolii e bestemmie soffocate dei becchini, giù nella profonda buca dove la luce del sole non l’avrebbe mai più raggiunta.
Due donne amiche l’avevano sorretta in quel momento tragico, temendo vacillasse, ma lei non si era neppure appoggiata perché non trasparisse qualcuno dei suoi sentimenti in piena.
Ed ora eccola, pallidissima, esangue, ma dritta come una quercia, flessuosa, elegante, rivolgersi alla piccola folla di quelli che avevano amato il suo caro e che facevano cerchio intorno all’aiuola dalla terra smossa, nera, grassa, odorosa di erba sradicata.
“Vi ringrazio tutti, siete dei veri amici. Vi ringrazio soprattutto per avere amato lui come meritava. Io dovrò, purtroppo, sopravvivergli e mi servirà tanta, tanta forza”.
Qui, la voce ebbe un’incrinatura e si notò che sotto la pelle levigata i muscoli si contraevano.
Qualcuno cominciò a piangere silenziosamente perché non si era mai visto un simile coraggio in una donna tanto giovane e così crudelmente colpita.
Una signora grassa, dal seno materno, si fece avanti e l’abbracciò, sussurrandole all’orecchio: “Povera piccola! Ma pianga dunque, si sfoghi!”
Un’amica d’infanzia le stampò due baci sulle guance: “Conta su di me per qualsiasi cosa!”
Poi, fu la volta dei colleghi di lui che facevano gruppo a parte, seri, compunti. Le diedero la mano con calore: “Condoglianze, cara signora, condoglianze!” “Se posso esserle utile....in qualsiasi momento......” “Ha lasciato un grande vuoto, non potremo mai dimenticarlo...”
La bimba di una vicina le porse, tutta timida, una preghierina scritta da lei al Buon Dio per il povero signor Carlo.
E poi ci fu altra gente che lei neppure conosceva bene. Tutti vollero stringere quella mano sempre tesa ed ammirare da vicino il bel viso, gli occhi limpidi ed asciutti.
Poi, quando il gruppo si sciolse, i parenti stretti, una zia di Carlo, la sorella ed il cognato, se la presero sottobraccio e l’accompagnarono a casa.
“Volete salire? “ chiese lei con voce ferma, “posso offrirvi un caffè?”
“Come preferisci, cara, come ti fa più piacere”
“Veramente sono molto stanca. Voi sapete, l’assistenza a Carlo è stata dura”
“Naturalmente lo sappiamo. Come vuoi. Ti telefoniamo domani”
L’abbracciarono nel sottoscala e se ne andarono.
La sorella disse: “Quella lì non vede l’ora di restare sola per piangere, la conosco. Ha fatto uno sforzo enorme su se stessa. Stringeva i pugni dentro le tasche.”
“Poverina!” fece il cognato.
“Si volevano tanto bene” disse la zia di Carlo e sospirò.
La vedova, intanto, saliva le scale a passo svelto. Pareva che non vedesse l’ora di arrivare su come se stesse fuggendo da qualcuno che l’inseguiva. Il suo viso aveva preso perfino un po’ di colore. Giunta alla porta del suo appartamento infilò la chiave con un certo nervosismo e poi entrò, con sollievo, nell’atmosfera calda della sua casa, cercando di cancellare dal ricordo le immagini della bara, al centro dell’anticamera, e di quegli uccellacci neri dei becchini che andavano e venivano. Con un gesto quasi sbarazzino fece volare le scarpe lontano dai suoi piedi stanchi. Quindi accese la radio ricavandone una musichetta allegra che le mise voglia di canticchiare. Andò poi nella camera che era stata del marito da quando si era aggravato e con un rapido sguardo si rese conto di come ed in quanto tempo si sarebbe potuto far sparire ogni traccia della lunga e noiosa malattia. Aprì la finestra per far uscire l’odore di medicinali che aveva impregnato i mobili e le suppellettili. Quindi si chiuse la porta alle spalle.
Finalmente poteva rilassarsi e passare al successivo capitolo della sua vita. Si pettinò i capelli che il vento umido aveva scompigliato in ricci disordinati e si guardò allo specchio: la muscolatura che aveva tenuta penosamente contratta per tutto il tempo del funerale affinché non affiorassero sul volto i moti inconfessabili del cuore, si era rilasciata e le stava sbocciando un magnifico sorriso di felicità che la faceva più bella. Si ammirò per qualche istante, congratulandosi con se stessa, poi si avvicinò al telefono, compose il numero del suo amante e disse solo una parola: “Vieni!”
Gli sguardi di tutti i componenti del corteo funebre erano per la vedova. La sua compostezza, la sua dignità, unite ad una notevole avvenenza, muovevano all’ammirazione chiunque la guardasse, perfino i passanti che si segnavano petto e fronte davanti al carro funebre e che, con curiosità mista a pena, seguivano con gli occhi la marcia lenta dei dolenti. Il nero del lutto confaceva alla sua bellezza, mettendo in risalto il turgore rosato delle carni giovanili. Camminava con la testa eretta, guardando dritto davanti a sé, quasi fissasse un punto del cielo da dove, forse, suo marito si sarebbe potuto affacciare per salutarla con un cenno della mano.
Non aveva versato un sola lacrima in tutto il corso della cerimonia. Né quando i becchini avevano chiuso la bara, né quando se l’erano caricata sulle spalle, passando tra le due ali di parenti ed amici dal viso afflitto, né in Chiesa, durante la predica dell’officiante che con la sua oratoria aveva mosso al pianto molti dei cuori più sensibili. E neppure, più tardi, al cimitero, durante quell’ultimo atto straziante al quale nessuno che abbia amato almeno un poco sa resistere: quando la cassa era scesa tra scricchiolii e cigolii e bestemmie soffocate dei becchini, giù nella profonda buca dove la luce del sole non l’avrebbe mai più raggiunta.
Due donne amiche l’avevano sorretta in quel momento tragico, temendo vacillasse, ma lei non si era neppure appoggiata perché non trasparisse qualcuno dei suoi sentimenti in piena.
Ed ora eccola, pallidissima, esangue, ma dritta come una quercia, flessuosa, elegante, rivolgersi alla piccola folla di quelli che avevano amato il suo caro e che facevano cerchio intorno all’aiuola dalla terra smossa, nera, grassa, odorosa di erba sradicata.
“Vi ringrazio tutti, siete dei veri amici. Vi ringrazio soprattutto per avere amato lui come meritava. Io dovrò, purtroppo, sopravvivergli e mi servirà tanta, tanta forza”.
Qui, la voce ebbe un’incrinatura e si notò che sotto la pelle levigata i muscoli si contraevano.
Qualcuno cominciò a piangere silenziosamente perché non si era mai visto un simile coraggio in una donna tanto giovane e così crudelmente colpita.
Una signora grassa, dal seno materno, si fece avanti e l’abbracciò, sussurrandole all’orecchio: “Povera piccola! Ma pianga dunque, si sfoghi!”
Un’amica d’infanzia le stampò due baci sulle guance: “Conta su di me per qualsiasi cosa!”
Poi, fu la volta dei colleghi di lui che facevano gruppo a parte, seri, compunti. Le diedero la mano con calore: “Condoglianze, cara signora, condoglianze!” “Se posso esserle utile....in qualsiasi momento......” “Ha lasciato un grande vuoto, non potremo mai dimenticarlo...”
La bimba di una vicina le porse, tutta timida, una preghierina scritta da lei al Buon Dio per il povero signor Carlo.
E poi ci fu altra gente che lei neppure conosceva bene. Tutti vollero stringere quella mano sempre tesa ed ammirare da vicino il bel viso, gli occhi limpidi ed asciutti.
Poi, quando il gruppo si sciolse, i parenti stretti, una zia di Carlo, la sorella ed il cognato, se la presero sottobraccio e l’accompagnarono a casa.
“Volete salire? “ chiese lei con voce ferma, “posso offrirvi un caffè?”
“Come preferisci, cara, come ti fa più piacere”
“Veramente sono molto stanca. Voi sapete, l’assistenza a Carlo è stata dura”
“Naturalmente lo sappiamo. Come vuoi. Ti telefoniamo domani”
L’abbracciarono nel sottoscala e se ne andarono.
La sorella disse: “Quella lì non vede l’ora di restare sola per piangere, la conosco. Ha fatto uno sforzo enorme su se stessa. Stringeva i pugni dentro le tasche.”
“Poverina!” fece il cognato.
“Si volevano tanto bene” disse la zia di Carlo e sospirò.
La vedova, intanto, saliva le scale a passo svelto. Pareva che non vedesse l’ora di arrivare su come se stesse fuggendo da qualcuno che l’inseguiva. Il suo viso aveva preso perfino un po’ di colore. Giunta alla porta del suo appartamento infilò la chiave con un certo nervosismo e poi entrò, con sollievo, nell’atmosfera calda della sua casa, cercando di cancellare dal ricordo le immagini della bara, al centro dell’anticamera, e di quegli uccellacci neri dei becchini che andavano e venivano. Con un gesto quasi sbarazzino fece volare le scarpe lontano dai suoi piedi stanchi. Quindi accese la radio ricavandone una musichetta allegra che le mise voglia di canticchiare. Andò poi nella camera che era stata del marito da quando si era aggravato e con un rapido sguardo si rese conto di come ed in quanto tempo si sarebbe potuto far sparire ogni traccia della lunga e noiosa malattia. Aprì la finestra per far uscire l’odore di medicinali che aveva impregnato i mobili e le suppellettili. Quindi si chiuse la porta alle spalle.
Finalmente poteva rilassarsi e passare al successivo capitolo della sua vita. Si pettinò i capelli che il vento umido aveva scompigliato in ricci disordinati e si guardò allo specchio: la muscolatura che aveva tenuta penosamente contratta per tutto il tempo del funerale affinché non affiorassero sul volto i moti inconfessabili del cuore, si era rilasciata e le stava sbocciando un magnifico sorriso di felicità che la faceva più bella. Si ammirò per qualche istante, congratulandosi con se stessa, poi si avvicinò al telefono, compose il numero del suo amante e disse solo una parola: “Vieni!”